Il catalogo Divina creatura. La donna e la moda nelle arti del secondo Ottocento, a cura di Mariangela Agliati Ruggia, Sergio Rebora e Marialuisa Rizzini, è stato pubblicato a corredo della mostra omonima allestita presso la Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Rancate tra l’ottobre 2017 e il gennaio 2018. Il volume è uno strumento prezioso per comprendere, attraverso le arti del tempo, le trasformazioni che investono la moda e lo spirito con cui le donne vi si accostano e con cui i pittori se ne fanno interpreti.
Su questo concetto si sofferma il primo contributo presente in catalogo, “Eterno femminino”. Sei brevi divagazioni sul tema, nel quale Sergio Rebora sottolinea come la pittura di genere dell’Italia post unitaria avesse allargato il proprio repertorio iconografico, dando grande spazio a una nuova immagine della donna moderna di ceto borghese: «In consonanza con l’affermazione delle poetiche del vero, sia in pittura che in scultura, fecero sempre più spesso la loro comparsa soggetti tratti dalla quotidianità, in cui risultavano protagoniste assolute alcune figure femminili descritte con estrema attenzione nelle azioni e nei gesti, ma anche nell’ambientazione del loro palcoscenico privilegiato, cioè il milieu casalingo e familiare, e non da ultimo nei dettagli dell’abbigliamento».
Tale affermazione è corroborata dall’ampia selezione di opere presentate in mostra, a ciascuna delle quali il catalogo dedica una scheda specifica: possiamo così ammirare gli impalpabili merletti bianchi del robe d’intérieur indossato da Carlotta Papudoff Aloisi, ritratta da Giovanni Boldini comodamente seduta nel salotto di casa; l’abito da ballo di ispirazione rococò sfoggiato da una giovane donna che Domenico Induno raffigura nell’atto di guardarsi allo specchio pensierosa; la generosa scollatura dell’abito grigio in seta marezzata dipinto da Ernesto Fontana addosso a una fanciulla colta con spontaneità durante la pausa da un ballo; le ampie falde del sontuoso vestito con strascico con cui Tranquillo Cremona ritrae Maria Marozzi in giardino; gli abiti neri, ora più composti e seriosi, ora lussuosi e sottilmente seducenti, indossati dalle figure femminili dipinte da Antonio Ciseri, Vittorio Corcos, Eleuterio Pagliano, Cesare Tallone.
È il pittore toscano Corcos a ritrarre, fasciata in un lussuoso abito rosa con gonna a corolla, impreziosito da applicazioni in tulle nero rilucenti di piume e paillettes, Carolina Maraini-Sommaruga nel dipinto del 1901 scelto per illustrare la copertina del catalogo.
A questa singolare figura, la cui lunga esistenza fu costantemente divisa tra la frequentazione mondana di ambienti altolocati, curiosità intellettuali e numerose attività filantropiche, Mariangela Agliati Ruggia dedica un appassionante profilo biografico nel saggio “Tra fili d’oro e punto ombra”. Un profilo di Carolina Maraini-Sommaruga, nel quale è messa in luce la sua personalità «complessa e raffinata».
L’incipit del titolo, tra l’altro, fa riferimento alla passione della contessa per il ricamo, che la portò a mettere insieme una nutrita collezione di merletti (bordi, tramezzi, fazzoletti, barbe, coprifedere, tovaglie e coperte), donata nel 1947 alla Confederazione Svizzera e alla quale è dedicato il saggio La collezione di merletti di Carolina Maraini-Sommaruga al Textilmuseum di San Gallo, scritto da Thessy Schoenholzer Nichols.
In mostra hanno fatto la loro comparsa numerosi dipinti nei quali le effigiate tengono in mano un ombrellino o un ventaglio, oggetto, quest’ultimo, cui l’esposizione ha dedicato una specifica sezione, presentando una decina di pezzi provenienti per lo più da gallerie e collezioni private.
Elemento di prestigio oltre che «complemento indispensabile dell’abbigliamento femminile, soggetto alle variazioni di gusti dettate dalla moda» – come giustamente sottolinea Elena Casotto nel saggio in catalogo Appunti sul ventaglio d’autore italiano negli ultimi decenni dell’Ottocento –, il ventaglio conosce una grande diffusione a partire dal Settecento e un ulteriore aumento della domanda nell’ultimo quarto dell’Ottocento, quando diviene indispensabile ricorrere alle importazioni dall’estero. La ricercatezza dei materiali utilizzati (per esempio oro, argento, avorio, madreperla per la fattura delle stecche e dei perni, pergamena di capretto, seta e merletti per le pagine) e l’ampia gamma di colori e soggetti raffigurati contribuiscono, insieme alle movenze messe in atto nel maneggiarlo, alla creazione di un vero e proprio “linguaggio del ventaglio” che si fa portatore di messaggi e significati simbolici, qualificandolo come oggetto dalle straordinarie potenzialità comunicative.
Nel guardaroba di una signora di fine Ottocento, dunque, non potevano mancare ventagli di varie fogge da utilizzare nelle occasioni più diverse – vi sono ventagli da chiesa, da campagna, da mattina, da teatro, da ballo ecc. – spesso dipinti dagli artisti allora più in auge o prodotti da ditte specializzate, soprattutto francesi, che ricorrevano a decoratori professionisti o a giovani pittori dilettanti in cerca di fortuna.
È del 1881 il ventaglio dipinto da Giuseppe De Nittis raffigurante una veduta della sua villa parigina immersa nel verde, acquistata l’anno precedente e divenuta luogo d’incontro di numerosi artisti e intellettuali negli anni in cui il pittore pugliese aveva ormai raggiunto la piena notorietà. L’influenza dell’arte giapponese è evidente nella raffigurazione di barcaioli in laguna su un ventaglio del paesaggista Pietro Fragiacomo, nel quale lievi tocchi di acquerello si alternano sapientemente a spazi vuoti sulla pagina in seta montata su una struttura in legno inciso e intagliato. E se Giacomo Favretto si mostra sedotto dalle decorazioni settecentesche, con putti paffuti che si librano in aria disponendosi tra fiori e panni svolazzanti con fare giocoso, in un ventaglio pensato come dono di nozze, suggestioni simboliste animano le pagine di ventaglio di Giovanni Segantini e Gaetano Previati, nelle quali i due artisti replicano i soggetti dipinti su due note opere, L’amore alla fonte della vita e La danza delle Ore.
Accessori come i ventagli erano naturalmente solo uno degli “oggetti del desiderio” che una signora à la page aspirava a possedere nel suo guardaroba. L’attrazione irresistibile che la moda esercitava sulla nuova borghesia in ascesa è ben esemplificata da un olio su tela del 1888 circa, esposto in mostra, nel quale Antonio Puccinelli imbastisce una scena corale di uomini e donne in una strada cittadina, fermi di fronte a vetrine che espongono tessuti, merletti, cappelli e abiti confezionati.
Questo aspetto della società ottocentesca viene indagato da Marialuisa Rizzini nel saggio in catalogo intitolato L’abito e il suo ritratto, in cui l’autrice si sofferma su molteplici tematiche: il ruolo e l’importanza dell’industria dell’abbigliamento come settore chiave per l’economia di molti paesi europei, con Parigi quale «centro propulsore della moda femminile cui tutta Europa guardava e si uniformava»; la crescente richiesta di costosissimi abiti d’haute couture – un capo firmato dal sarto Worth era il sogno di ogni donna – con cui farsi fare un ritratto da un celebre pittore, eternando così un’immagine adeguata al proprio ceto sociale, elegante e piena di fascino; il ruolo avuto dai figurinisti e dagli illustratori delle riviste femminili nel suggerire ai cosiddetti “peintres couturier” pose e dettagli dell’abbigliamento da riprodurre nei loro quadri; il rapporto delle donne col vestiario, in un’epoca in cui la società era ancora fortemente gerarchizzata e a una donna si chiedeva in prima istanza di mostrarsi attraente per raggiungere il solo obiettivo che le era davvero riconosciuto, cioè quello di trovare marito.
Una specifica sezione del catalogo è, infine, dedicata a una selezione di capi di abbigliamento presentati in mostra, vicini per cronologia e foggia ad alcuni di quelli raffigurati nei dipinti esposti. Tale rassegna offre, inoltre, la possibilità di appurare quanto l’abbigliamento femminile fosse estremamente diversificato, prevedendo per ogni occasione mondana o momento della giornata una mise differente e comportando, di conseguenza, consistenti esborsi in denaro.
Sfogliando il catalogo Divina creatura troveremo così abiti da giorno, da sera e da ricevimento – due pezzi, uno in velluto di seta e taffetà cremisi e un altro a larghe righe beige e rosa antico, usciti dalla sartoria di Charles Frederick Worth – per non tacere degli abiti nuziali, di cui il libro riporta tre esemplari, di cui due conservati nella celebre collezione di Palazzo Morando a Milano, bianchi e pudicamente sobri e accollati come voleva il galateo borghese ottocentesco.
A cura di Mariangela Agliati Ruggia, Sergio Rebora, Marialuisa Rizzini
Editore Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano)
Anno 2017
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